Vivere e giocare in una campana di vetro dalle pareti oscurate. Per i calciatori della Oberliga, il campionato di calcio della Germania Est, quello era il pane quotidiano. Nessun osservatore straniero sugli spalti, nessuna immagine che filtrava all’esterno; partite, magie, emozioni, tutto in involontaria esclusiva per la gente del posto. Frustrante per personaggi come Peter Ducke, artista del pallone pressoché sconosciuto al di fuori dei confini dell’ex DDR a dispetto della quantità di invenzioni, di gol e di dribbling disseminati lungo una carriera spesa interamente tra le fila dell’Fc Carl Zeiss Jena, la squadra della città della Turingia fondata da un gruppo di operai dell’industria ottica Carl Zeiss. “Fosse nato in Germania Ovest avrebbe conteso il posto da titolare in nazionale a gente del calibro di Uwe Seeler e Gerd Müller, e avrebbe vinto una Coppa del Mondo”; una frase che il suo vecchio allenatore Georg Buschner non smetteva mai di ripetere per cercare di rendere un minimo di giustizia a questo genio del pallone la cui lampada è rimasta sepolta sotto la Cortina di Ferro, ma che in patria è stato uno dei calciatori più amati dalla gente.
Del resto non avrebbe potuto essere altrimenti, dal momento che Ducke, calcisticamente parlando, è stato uno dei giocatori meno “tedeschi” mai visti nella storia della Oberliga, grazie ad un bagaglio tecnico di prim’ordine unito ad una classe pressoché sconosciuta in un paese la cui cultura sportiva poggiava sui sacri dogmi dell’atletismo (spesso spinto chimicamente al limite e magari anche oltre…) e della prestanza fisica. Una filosofia che un Ducke non ancora 18enne impara bene a conoscere quando compie il grande salto passando dalla squadretta locale del Motor Schönenbeck all’Sc Motor Jena (rinominato Fc Carl Zeiss nel 1965, sesto cambio di ragione sociale in meno di vent’anni) e raggiungendo lo status di “dilettante di stato” previsto dalla legislazione della DDR, che vietava il professionismo e obbligava i giocatori a possedere, almeno pro forma, un impiego (nel caso del giovane Peter venne “scelto” quello di apprendista saldatore). A Jena gli allenamenti sono durissimi, con esercizi mutuati direttamente dal rugby (come le sessioni di spinta uno contro uno, uno contro due e via dicendo) e partite giocate con palloni molto più pesanti di quelli ufficiali per rinforzare i muscoli degli arti inferiori. Ritmi massacranti che temprano il fisico nel tentativo di creare macchine umane; per Ducke, nato e cresciuto in una famiglia di sportivi (il padre, i due nonni e il fratello maggiore Roland erano tutti calciatori), semplicemente l’occasione per irrobustire la scorza e corazzare il talento, perché è cosa nota che in campo ai più bravi è sempre spettato l’onore degli applausi ma anche l’onere dei calcioni più violenti.
Il ballo della stella nata durante la Seconda Guerra Mondiale a Bensen, villaggio nella zona dei Sudeti, inizia l’8 maggio 1960 contro l’Aufbau di Magdeburgo (3-5 il risultato) e si conclude diciassette anni dopo con tre campionati (’63, ’68, ’70), tre coppe nazionali (’60, ’72, ’74), un titolo di capocannoniere (’63) e uno di giocatore dell’anno (’71) vinti, oltre che a un bottino personale di 353 presenze e 153 reti, buona parte delle quali realizzate nella prima parte degli anni Sessanta quando il fisico non era ancora minato dai postumi di un grave infortunio alla gamba che lo costringerà ad abbandonare progressivamente il posto al centro dell’attacco per arretrare il suo raggio d’azione sulla trequarti. Ducke incanta in patria e assaggia piccole porzioni di Europa attraverso le coppe, alle quali il Carl Zeiss Jena riesce a qualificarsi con buona regolarità; Madrid (sponda Atletico), Belgrado, Amsterdam, Marsiglia, Lisbona, Leeds e anche una puntata in Italia nella stagione 69-70 per affrontare, nel secondo turno di Coppa delle Fiere, il Cagliari di Riva e Scopigno.
Il 5 marzo 1970 in una Jena coperta dalla neve il Carl Zeiss sta conducendo 3-0 sull’Ajax di Cruijff e del generale Michels, con la terza rete che porta la firma del nostro; un risultato contro ogni pronostico, considerate anche le disastrose condizioni di un campo formato palude sul quale i giocatori olandesi si reggono a malapena in piedi. I tedeschi invece sembrano volare, finché a pochi minuti è proprio Ducke a svelare involontariamente l’arcano con un’entrata da codice penale sul ginocchio destro di Wim Suurbier che gli provoca un taglio profondo dieci centimetri; dal parapiglia che ne consegue si scopre che alcuni giocatori del Carl Zeiss erano scesi in campo con scarpe chiodate assolutamente non regolamentari. Gli ajacidi chiedono la sospensione dell’incontro, il direttore di gara, l’italiano Francescon, decide pilatescamente di far giocare (l’incontro finirà 3-1) come se nulla fosse successo. L’Ajax presenta un esposto all’Uefa, ma sarà tutto inutile; ad Amsterdam i biancorossi si impongono 5-1, non prima però di aver tremato per quasi un’ora di gioco dopo che al minuto numero sedici un’invenzione di Ducke aveva portato in vantaggio i tedeschi. Il giorno dopo la stampa olandese, fino a quel momento profondamente ostile nei confronti del campione della Germania dell’Est per i fatti del 5 marzo, gli rende i dovuti onori.
Agli inizi degli anni Settanta il Carl Zeiss Jena diventa uno dei principali “fornitori” della nazionale della DDR; Konrad Weise, Hans-Ulrich Grapenthin, Lothar Kurbjuweit e appunto Peter Ducke, che all’epoca è però già uno dei veterani, avendo esordito in maglia bianca il 30 ottobre 1960 in Germania Est-Finlandia 5-1. Nel 1966, nel corso di un torneo amichevole in Messico, il difensore dello Sparta Praga Jiri Tichy gli provoca una doppia frattura alla gamba destra che rende i medici pessimisti riguardo al proseguimento della carriera. Oltre un anno dopo rimette però piede in campo, in un’amichevole con i dilettanti del Meiningen, trovando 2500 persone sugli spalti ad applaudire calorosamente il suo ritorno. Pur con una gamba più corta di un centimetro rispetto all’altra, il talento di Ducke rimane intatto. Nel 1972 vince con la DDR la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Monaco giocando tutte e sette le partite della manifestazione e realizzando anche, contro la Colombia, un gol, mentre due anni dopo è nell’elenco dei convocati per il Mondiale in Germania Ovest. Sulla panchina siede il mentore Georg Buschner, ma c’è il problema di una condizione fisica lontana dal top a causa di una serie di infortuni. Ducke scende in campo contro Cile (1-1), Olanda (0-2) e Argentina (1-1) ma non in quella che a posteriori definirà “la partita più importante della mia vita”, ovvero l’incontro con la Repubblica Federale Tedesca. “Jürgen Sparwasser (autore della rete che decise l’incontro, ndr) fece ciò che avevo sempre sognato, io tornai nella mia stanza di albergo e mi misi a piangere. L’occasione per dimostrare al di fuori della Germania Est il mio valore se ne era definitivamente andata”.
Ducke giocherà ancora un anno in nazionale, con la quale chiuderà con uno score di 67 presenze e 15 reti, e tre anni nel Carl Zeiss Jena, poi si dedicherà alle giovanili del club diventando in seguito insegnante di educazione fisica. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’apertura degli archivi segreti della Stasi è emerso che Ducke, a dispetto di una squalifica di dieci giornate rimediata nel maggio del ’65 per “aver gettato discredito sulla concezione socialista dello sport” (in pratica aveva invitato l’arbitro, al termine di un finale di coppa vinta dal Magdeburgo sul Carl Zeiss, a portarsi a casa il trofeo dal momento che “l’aveva vinto lui”), era ben visto negli ambienti del Ministero per la Sicurezza di Stato, tanto da essere individuato come un elemento che “grazie al proprio carisma poteva ricoprire un ruolo importante nell’impedire fughe nell’Europa Occidentale di qualche compagno di squadra”. Ducke fu quindi uno di famigerati “IM” (Informelle Mitarbeiter, ovvero collaboratori informali)? Forse solo indirettamente e a sua insaputa, dal momento che nei suddetti archivi non è stato trovato più niente a suo nome. La gente però non l’ha mai dimenticato; nel 2000 la classica votazione di fine millennio sul miglior giocatore tedesco di sempre lo ha visto finire al nono posto dietro a Fritz Szepan e davanti a Jürgen Klinsmann, ma soprattutto unico giocatore dell’ex DDR ad entrare nella top ten. Poco prima di morire chiesero a Georg Buschner, considerato il miglior allenatore di sempre della Germania Est, se a volte non lo cogliesse il rimpianto di non aver mai avuto la possibilità di allenare campioni alla Netzer o alla Zidane. “Perché mai?, rispose, “io a Jena avevo Peter Ducke”.
Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it
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