Il senso della NCAA

di Stefano Olivari
Il declino del basket NCAA è iniziato a metà anni Novanta, con il passaggio diretto dall'high school alla NBA di stelle annunciate come Kevin Garnett (draft '95), Kobe Bryant ('96) e Tracy McGrady ('97): non fatti inediti, basti pensare a Moses Malone e Darryl Dawkins, ma questa volta indicatori di una tendenza generalizzata: il college come parcheggio da evitare o da limitare a un anno, secondo le regole attuali (introdotte dal draft 2006). Parliamo ovviamente di chi si si può permettere di scegliere, con le permanenze più lunghe che sono consigliate solo dalla limitazione a due (e quindi a 60 chiamate) dei giri di draft. Questo non toglie che che questo basket sia ancora quello più vicino allo spirito del gioco, con i commoventi due tempi di 20 minuti e i 35 secondi di limite per azione che costringono a pensare anche i più individualisti in campo.
Per questo vale la pena anche quest'anno di mettere in pericolo rapporti personali e di lavoro guardando quanto più possibile del torneo finale che inizia domani con i turni preliminari e che ieri è stato anticipato dalle ultime finali delle varie conference ma soprattutto dalle 'selezioni' di chi non si è guadagnato il biglietto vincendo il proprio torneo. La curiosità è che fra le quattro prime teste di serie (ogni quarto del tabellone ha una numero uno, una numero due e così via fino alla sedici) solo una, la Michigan State di Tom Izzo, ha vinto il proprio torneo di conference, mentre a sopresa lo hanno perso la favoritissima Kentucky di John Calipari, la Syracuse di Jim Boeheim e la North Carolina di Roy Williams. Il Selection Sunday si presta tantissimo al bar, perchè quest'anno le squadre con più di 20 vittorie nella stagione (in genere le partite totali sono poco più di 30) sono state 112 (con le squadre eliminati ai preliminari il tabellone è a 68) e il comunque utilissimo RPI (un sistema matematico di rating che tiene conto del proprio record, di quello degli avversari e di quello degli avversari degli avversari, con una formula che vi risparmiamo) non dice tutto visto che molti record possono essere costruiti. Chiudiamo quindi con una considerazione da bar: la Ohio State di Jared Sullinger (giocatore dell'anno, fra l'altro) è stata sottovalutata, si trova dalla parte di Syracuse ma ha tutto per festeggiare il 2 aprile a New Orleans.


Twitter @StefanoOlivari

3 commenti:

Andrea87 ha detto...

nel momento in cui dai un pacco di soldi a chi muore letteralmente di fame (tanti casi) non appena entra nella NBA tra contratti e sponsor, la NCAA diventa inutile o addirittura dannosa: prendi un Greg Oden, si fosse fatto male 12 mesi prima addio prima scelta al draft e addio milioni di dollari... chi glielo faceva fare di rimanere al college uno-due anni ad affinare il talento se poi al primo scontro rischi di bruciare il tuo futuro e il tuo passato (non si trovano mica all'università perchè saranno scienziati)?

Stefano Olivari ha detto...

Come Zuckerberg ha fatto bene a lasciare Harvard per dare concretezza al suo talento, bene ha fatto Oden a comportarsi così con Ohio State, non c'è dubbio. E questo a prescindere dagli infortuni che gli hanno stroncato la carriera. In chiave pro NCAA, anche della NCAA attuale, si può dire che offre un lancio mediatico pazzesco a ragazzi (anche ai migliori) che magari nella franchigia sbagliata scomparirebbero. Sono considerazioni che non valgono per i LeBron e i Kobe, ma per chi sta subito sotto sì.

nanomelmoso ha detto...

eppure siamo sicuri che ad un giocatore come Lebron un anno al college non avrebbe fatto bene?
Magari sotto l'allenatore giusto che avrebbe potuto affinare il suo talento ed il suo istinto.

Quanto è stato importante Dean Smith e gli anni al college nello sviluppo di Jordan?

Nessuno lo può dire eppure i giocatori usciti direttamente dal college hanno avuto tutti i loro bachi tranne kobe. Ma temo he kobe sia proprio di una razza a parte e soprattutto kobe è figlio di giocatore/allenatore