Un anno a Kentucky

di Stefano Olivari
Quando nel marzo 2005 leggemmo la notizia della morte di Nicola Calipari ci vergognammo di 'pensare' il suo cognome con l'accento sulla seconda 'a', come quello di John Calipari. Ma purtroppo siamo fatti così, il basket ce lo sognamo (oltre che guardarlo) anche di notte. L'allenatore di Kentucky non è più un perdente di successo, ora che ha vinto il titolo NCAA dopo averlo annusato con Massachusetts e sfiorato con Memphis e la stessa Kentucky (unico allenatore, insieme al Rick Pitino incrociato in semifinale, ad avere portato tre diverse squadre alla Final Four). E la vittoria della favorita in una stagione con poche sorprese offre il pretesto per qualche considerazione su un basket che amiamo e seguiamo più per quello che è stato che per quello che è. Sarà anche che la maggior parte di quello che è stato l'abbiamo conosciuta attraverso libri e giornali e che solo dall'anno di grande grazia 1982 (vittoria della North Carolina di Dean Smith, con uno dei vari 'the shot' della carriera di Michael Jordan nella finale con la Georgetown di Pat Ewing) possiamo fare del bar su cose che vediamo almeno in televisione.
1) Il gioco a livello di college è sempre più simile a quello NBA, con scelte veloci in alternativa ad isolamenti, al punto che per molte squadre (Kentucky è una di queste) giocano con un limite di 35 secondi ad azione con le stesse scelte che farebbero con il limite a 24. In difesa sempre meno zona, una scelta su cui bisogna lavorare nel tempo, in favore di più semplici e motivanti difese individuali. Non è certo una tendenza nata quest'anno, però mano a mano che i 'vecchi' coach passano a miglior vita la situazione peggiora. La dribble drive motion offense, uno degli attacchi che più caratterizza il basket di Calipari (che per la verità lo lanciò a Memphis), altro non è che una guardia che batte dal palleggio il suo marcatore e poi decide in base alla reazione della difesa se andare a canestro o riaprire (nel manuale la partenza base prevede almeno tre 'fuori'). Pochi tagli, pochi blocchi, molta creatività che potremmo chiamare anche improvvisazione.
2) Un luogo comune, fondato come quasi tutti i luoghi comuni, vuole che oggi i coach siano più reclutatori che allenatori. E' vero per quasi tutti, soprattutto in questa era in cui i freshman di talento (quelli da 'one and done') sono decisivi, quindi la vittoria del re dei reclutatori è solo una conferma. Dopo un solo anno saluteranno la compagnia la stella Anthony Davis, Michael Kidd-Gilchrist e Marquis Teague (fratello del Jeff degli Hawks), insieme ai sophomore (rimasti solo perché c'era aria di lockout nella NBA) Jones e Lamb. 
3) Al netto del razzismo, il marketing NBA gradirebbe l'emergere di campioni bianchi ed è per questo che l'anno di Kevin Love vale come cento milioni investiti in pubblicità. Da questa stagione di college è uscito poco, anche se in sede di premi e di All American la pelle fa guadagnare qualche punto. Nel primo quintetto Doug McDermott, classico figlio di allenatore e ala piccola 'di una volta', con tiro e senso del rimbalzo, ma non al livello degli altri quattro. Ecco, che nel primo quintetto ci sia lui e non l'ex compagno di high school Harrison Barnes (stagione sotto le attese a North Carolina, ma comunque un fenomeno) fa pensare. Insomma, come in Brasile: basket ai neri, volley ai bianchi.
4) Il basket professionistico ha più mobilità sociale di quello sulla carta (perché non pagati, almeno ufficialmente, sono solo i giocatori) dilettantistico. Se ai Thunder bastano due campioni e qualche scelta giusta per diventare in due stagioni una squadra da titolo pur partendo da un mercato depresso, nemmeno due finali NCAA consecutive hanno dato a Butler la stessa attrattiva di Kentucky, North Carolina, Kansas, Duke, eccetera. Non è un caso che Calipari, ammesso che rimanga (potrebbe anche tornare nella NBA, dove è già stato con Nets e Sixers), abbia già in mano secondo Andy Katz di Espn.com (i suoi articoli sono uno dei pochi motivi validi per alzarsi alle sette del mattino), due fra i migliori diciottenni dell nazione: il centro Nerlens Noel e l'ala Shabazz Muhammad.


Twitter @StefanoOlivari

9 commenti:

jeremy ha detto...

Diretto, a me fa impressione il fatto che negli USA ci siano gli allenatori da college e gli allenatori da Lega. E gente come Knight, Calipari, Pitino e Wooden ha un'aura che non ha nulla da invidiare (nel caso di Knight e Wooden forse addirittura maggiore) ai Jackson o ai Riley.

Stefano Olivari ha detto...

Forse, vista da lontanissimo, rapportarsi a gente che ti manda a quel paese (non solo a parole, ma anche tatticamente) è diverso che che farlo con diciottenni sia pure di enorme talento. Detto questo, Calipari per carattere è proprio uno di quelli che ce la può fare in entrambi i mondi. Finora ce l'ha fatta, nel senso proprio di vincere, solo Larry Brown.

carloblacksun ha detto...

piu' che di campioni bianchi ha bisogno di campioni cinesi. basti guardare le 7-8 buone partite di Lin cosa hanno portato. Ormai a Los Angeles si vedono in giro piu' magliette di Lin che di Kobe e Blake messi insieme.

Quartz ha detto...

Al netto dei talenti spettacolari, a me sembra che da fine '90 sia la NBA sia la NCAA si sia spostata su sempre meno tattica e sempre più fisico/talento (a seconda).

Gli americani sembrano divertirsi di più, io però mi diverto di meno

Vi ha detto...

Massimi sistemi: so che stefano da buon reaganiano sostiene la libertà dell'atleta per cui è contrario anche all'anno di college (non pagato) obbligatorio. io sono ambivalente, sono d'accordo che il fenomeno lo vedi già a 18 anni (Garnett, Lebron, Kobe), ma io credo che anche un fenomeno come Duncan senza i 4 anni di affinamento a Wake Forest sarebbe stato un giocatore diverso e peggiore. Idem per le PG della nuova generazione come Westbrook, Rose e Tyreke, ottimi giocatori da 1vs1, talenti fisici incredibili ma un po' limitati in quanto a comprensione del gioco.

Venendo a Kentucky, direi troppo piu' forte, con Davis che si candida a nuovo Garnett ma pure Kidd-Gilchrist che sa difendere bene sui lunghi e sui piccoli... Non a caso li danno in lottery. In ogni caso grandissimo cuore Kansas, se dovessi ingaggiare qualcuno per un motivational speech chiamerei self. Per stefano: http://msn.foxsports.com/collegebasketball/story/john-calipari-bill-self-prove-they-more-than-just-recruiters-with-national-title-game-showing-040212

Stefano Olivari ha detto...

@carloblacksun: prima che emergessero Schumacher ed Hamilton, Eccelestone disse in un'intervista che per essere perfetta la Formula Uno avrebbe avuto bisogno di un campione tedesco e di uno nero... tutto va venduto. @Caizzi: il paradosso è che Stern vorrebbe che nella NBA entrassero ragazzi con una carriera universitaria più lunga, per sfruttare (tanto per essere concreti) il pompaggio mediatico del basket di college. Pensa solo al Fredette dell'anno scorso, che tutti abbiamo pensato-sperato fosse un mini-Maravich. @Vi: bell'articolo, ma non spiega perché dovremmo considerare Calipari e Self allenatori migliori, per dire, di Brad Stevens. Non è un insulto, poi, questo della bravura nel reclutare, ma la realtà della NCAA.

Straw61 ha detto...

da cultore del grande trentennio (cestistico), ho molto apprezzato la finale di lunedì: basket old school con il fortino presidiato e limitato utilizzo della kukozzia, di conseguenza esterni a guadagnarsi la pagnotta con "palleggio arresto e tiro" e penetrazioni finite in modo molto tecnico proprio per la presenza di corpi voluminosi sotto canestro (non se ne può più dell'esterno che va via al proprio avversario ai 7 metri e chiude in layup indisturbato perchè sono tutti a difendere sul perimetro). Parecchi ragazzi sono già pronti per l'NBA anche se io porterei almeno a 2 gli anni di college basket obbligatori...Stern & C. ne trarrebbero enorme beneficio.
Una considerazione su Anthony Davis, giocatore tecnicamente straordinario (chiudere da due metri in semigancio con entrambe le mani, senza usare il tabellone non è esattamente da tutti) ma temo ancora troppo soffice per certi palcoscenici...in finale l'ho visto soffrire molto la fisicità della difesa di Kansas. In questo senso il paragone con Garnett calza a pennello (e non lo ritengo un complimento)...ma il mio pronostico è che, alla fine, avrà una carriera assai più luminosa del bigliettone...

Stefano Olivari ha detto...

@Straw61: anche a me Davis sembra soft per la NBA a intensità massima (esempio fresco di questa notte: il fallo di Westbrook su LBJ lanciato e un canestro del Chosen One alla cieca dopo avere preso una ditata negli occhi mentre era in volo), ma tecnicamente super anche in una partita come la finale in cui in attacco ha giocato per gli altri... ho letto un pezzo sul New York Times in cui si proponeva di subordinare il pagamento (finalmente) dei giocatori di college alla permanenza per quattro anni...

chad palomino ha detto...

L'ideale per la maturazione tecnica dei giocatori sarebbe farsi almeno un paio di anni al college, dove si gioca meno e si ha più tempo per allenarsi e quindi lavorare sui propri limiti/difetti. Poi Durant e Bryant emergono lo stesso, però sono molti i giocatori che finiscono in NBA prima del tempo, quando ancora non sono per nulla pronti al mondo pro, tecnicamente e/o mentalmente. Una soluzione potrebbe essere (e sarebbe sacrosanto viste le cifre che girano) pagare i giocatori.