Il memorabile Adrian

1. Non amando le iperboli, ci limitiamo a dire che quel che Adrian Peterson (foto) ha fatto domenica a Chicago è “solo” memorabile. Nel dettaglio: 20 corse per 224 yard (una in meno dell’obiettivo che come SQUADRA i Vikings si erano posti per la sfida contro i Bears, vinta 34-31), due touchdown con corse di 73, 67 e 35 yard ed un ritorno di kickoff da 53 yard che dopo il pareggio degli avversari a 1’50” dalla fine ha creato le condizioni per il calcio da tre punti vincente di Ryan Longwell (55 yard) allo scadere. Mai nessuno aveva corso tante yard contro i Bears nella storia, ma non è stata solo la consistenza numerica delle gesta di Peterson a colpire: la maniera con cui ha segnato i td e sparpagliato difensori a destra e sinistra è stata altrettanto significativa, perché ha dato l’immagine di un running back di altissimo livello. Peterson oltretutto è un rookie, è texano ma viene da Oklahoma (come dire che uno è tifoso del Torino ma viene dalla Juventus), dove la tradizione di RB è grandiosa, nonostante l’apertura al gioco di passaggio delle ultime stagioni, e i Vikings lo hanno preso, nonostante la presenza nel roster di Chester Taylor diventato titolare solo dodici mesi fa, perché al momento del draft se l’erano trovato disponibile al numero 7, ed hanno seguito una delle due teorie normalmente applicate: o prendi il miglior giocatore rimasto, perché male non farà, o mantieni la calma e lasci stare un potenziale campione in un ruolo in cui sei già coperto, preferendo invece il più adatto alle tue esigenze. Buona la prima, buonissimo il risultato. A dire il vero Taylor, che come tutti i running back vuole la palla in esclusiva, non è che avesse esultato alla notizia, ma lo avevano calmato dicendogli che coach Brad Childress, nella sua West Coast Offense in cui i running back devono anche ricevere molti passaggi, prevedeva per lui e per Peterson un impiego simile a quello del duo Kevin Mack-Earnest Byner nei grandi e sfortunati Cleveland Browns della seconda metà degli anni Ottanta, allenati da Marty Schottenheimer: bravi tutti e due, con Mack un pochino più simile ad un fullback, nel 1985 corsero entrambi per più di 1000 yard, unica volta nella storia che ciò accadde a due giocatori della medesima squadra. E’ però ora evidente che Peterson, fisicamente più completo di Taylor, anche se con uno stile di corse eretto che secondo alcuni è stato responsabile di numerosi infortuni al college, è diventato il numero uno: i Vikings sono primi per yard corse, 170 a partita, e Peterson, primo sia nella relativa graduatoria individuale complessiva (607) sia per yard per corsa (6.7), ha già quasi il triplo di corse rispetto al collega, 96 contro 33. Altro che Mack e Byner.
2. Qualcuno si è chiesto cosa sia quel quadratino con una C grande e quattro stellette alla base che alcuni giocatori NFL portano sulla maglia, dalla parte destra del petto? Semplice: serve ad identificare i capitani delle squadre, e le stellette rappresentano gli anni, uno ciascuno, in cui tale giocatore è stato capitano (a dire il vero però ne abbiamo viste sempre e solo quattro). Parecchi veterani NFL non hanno capito il motivo concreto di tale innovazione: «Io non ricordo quando sia stata l’ultima volta in cui in campo ha contato qualcosa sapere chi fosse il capitano – ha detto Jonathan Ogden, il tackle dei Baltimore Ravens – Tanto sai che da noi si guarda tutti a Ray (Lewis, ndr), Ed Reed o Steve (McNair, ndr) o Mike Flynn. Chissenefrega se ce l’hai scritto sulla maglia». In effetti…
3. A Seattle, vincendo al quinto tentativo la loro prima partita stagionale, i New Orleans Saints sono parsi tutto tranne che una squadra ancora a zero vittorie. Anzi, la fiducia in sé e il controllo di alcune situazioni sono sembrate quelle dello scorso anno, quando i Saints erano arrivati alla finale di conference. Non solo nella capacità di tenere duro anche dopo essere andati in vantaggio, ma in quella di non abbattersi dopo un errore, a dire il vero pochi, nel 2006. Il che conferma quel che molti avevano notato anche nelle prime quattro gare, tutte perse: i Saints avevano giocato sempre decentemente, ad un livello tale da poter vincere, ma era sempre accaduto qualcosa, qualche episodio particolare, che aveva fatto svanire ogni speranza. In soldoni: sì, la perdita di Deuce McAllister per infortunio, le incertezze di Reggie Bush utilizzato da runner puro, passaggi non tenuti dai ricevitori, ma nulla che proiettasse l’immagine di una squadra disastrosa. A Seattle è stato tutto diverso, compreso un maggiore coraggio nella scelta di schemi difensivi (strepitoso ad un certo punto un blitz del safety Roman Harper), e lo si capisce da un episodio: schiacciati sulla propria linea delle 2 yard a inizio ultimo quarto, sul 28-10 a proprio favore ma in potenziale posizione di costruzione del morale per i Seahawks, già alla prima azione hanno guadagnato 21 yard con un perfetto lancio di Drew Brees per Billy Miller, allontanando il pericolo e sgonfiando in parte la folla dello splendido Qwest Field, che si è poi dovuta accontentare di un solo altro touchdown da parte dei locali, le cui azioni sono spesso state accompagnate da “buuu”. A parte le difficoltà sul gioco di corsa, dove Bush pur con l’ottima gara contro i Seahawks è solo a 3.5 yard medie conquistate, un dato chiarisce ulteriormente la situazione dei Saints: sono a -8 alla voce palle perse, ovvero differenza tra palle perse (intercetti, fumble) e recuperate, dato peggiore della NFL assieme a quello dei St.Louis Rams, non a caso ancora a zero vittorie. Per dirne una, i Patriots, spaventosamente efficaci nel primo mese e mezzo di stagione, sono a +7, primi assieme ad Indianapolis. Vero, i Saints sono 27esimi per punti concessi, 22esimi per yard concesse e 26esimi per quelle lasciate su lancio, e in attacco sono ugualmente malmessi (si è visto nel secondo tempo a Seattle): ma dite che non conta gestire bene la palla, allora?
4. Non è una novità visto che si sa da tempo, ma colpisce un po’ che due quarterback rispettivamente di buona e buonissima reputazione come quelli di Texas e di Hawaii abbiamo il medesimo nome, non comunissimo: Colt. McCoy quello dei Longhorns, Brennan quello dei Rainbows. A dirla tutta: negli USA non è un nome così eclatante, e oltretutto il suo significato originale (“puledro”) non ha laggiù quel curioso fascino che esercita da noi, dove l’italiano medio sentendo dire “colt” pensa ad una pistola, retaggio dei fumetti e dei film western. Brennan, californiano, per inciso, detiene il record per Td lanciati in una sola stagione NCAA, ben 58. E’ successo nel 2006, ed ha portato Brennan nel novero di giocatori da considerare per il premio di Heisman Trophy, di cui abbiamo parlato due settimane fa, e sul quale torneremo se sarà il caso, visto che vogliamo evitare paranoie tipo Pallone d’Oro. Una curiosità su Brennan, non edificante: si era originariamente iscritto a Colorado, ma una sera del primo anno, fine gennaio 2004, aveva bevuto troppo, era entrato nella camera di una studentessa, si era spogliato e le aveva – come dire? – messo le mani addosso. In quel periodo già intorno a molti giocatori dei Buffaloes giravano brutte voci, per cui per non peggiorare la situazione i vertici del dipartimento sportivo cacciarono Brennan. Che dovette così trasferirsi al Saddleback Junior College in California, stato dal quale proviene, per riabilitarsi: si interessarono a lui molti college ma praticamente tutti si tirarono indietro quando per quell’incidente a Colorado arrivò la sentenza di condanna a qualche giorno di carcere e quattro anni di libertà vigilata. Alla fine fu Hawaii a proporre un posto a Brennan, ma solo a condizione che si pagasse la retta, dunque senza la borsa di studio che offrivano invece San José State e Syracuse (in quest’ultimo caso però l’offerta venne revocata quando ne venne a conoscenza il rettore). Ad Hawaii il coach June Jones, celebre per la sua predilezione per il gioco di lancio, promise a Brennan un grande futuro, riuscendo così a convincerlo. Il suo prossimo passo sarà verso la NFL, nel draft 2008, ed era ora: a causa delle sue vicende, Brennan ha perso tempo ed ha ora già 24 anni, la medesima età di Matt Leinart, il QB di Arizona ora fermato da un infortunio alla sua seconda stagione NFL. Il riferimento non è casuale: alla Mater Dei High School di Santa Ana, una delle scuole private cattoliche più grandi degli USA ed eccellente in campo sportivo, Brennan era la riserva di Leinart. Ma è davvero giocatore da NFL? Alcuni fattori vanno verificati. Prima di tutto quello personale: seguendo l’esempio del commissioner Roger Goodell, che è intervenuto in maniera decisa per punire i giocatori colpevoli di violazioni della legge, è possibile che molti proprietari di squadre siano restii all’idea di prendersi a carico un ragazzo tuttora in libertà vigilata. Anche se decisamente cambiato: trasferirsi alle Hawaii, in quello che egli stesso definisce un ambiente molto più rilassato che non in California, gli ha dato tranquillità e maggiore sensibilità verso gli altri, culminata nella decisione di imparare il samoano per poter chiamare gli schemi nella lingua parlata da molti suoi compagni di squadra, ai quali ha cercato di avvicinarsi anche adottando una pettinatura a treccine. Sul piano tecnico gli scout hanno il dovere di essere scettici: già in passato quarterback provenienti da sistemi di gioco quasi esclusivamente volti al lancio, parliamo di Andre Ware e David Klingler (entrambi a Houston University in stagioni successive, primi anni 90), oltre a Willie Totten, il bombardiere che lanciava a Jerry Rice a Mississippi Valley State, non si sono poi rivelati veri Qb da NFL, dove contano molti aspetti che prescindono dalle pure doti balistiche, e dunque il talento di Brennan va esaminato con molta cura per evitare che faccia una brutta fine. Sull’argomento coach Jones, che in passato ha allenato Jim Kelly, Warren Moon e Jeff George, si ribella, nelle parole di qualche mese fa al Los Angeles Times e a espn.com, che mescoliamo: «Anche Jim Kelly (storico Qb dei Buffalo Bills, ndr) era un prodotto di un sistema di gioco come questo e credo che il concetto di provenienza sia sopravvalutato. I Qb che provenivano da questo sistema di gioco e non ce l’hanno fatta nella NFL semplicemente non erano all’altezza».

Roberto Gotta
chacmool@iol.it
http://vecchio23.blogspot.com

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