Tutta colpa dello Zaire

La bella sconfitta è un genere giornalistico fortunatissimo, che permette di confermare i pregiudizi senza preoccuparsi del risultato del campo: i trionfi diventano imprese omeriche, le sconfitte sono ovviamente vittorie sfiorate. E’ il caso della Scozia, sulle cui occasioni mancate sono state scritte decine di libri che però rispetto alla produzione tifosa di altre latitudini hanno il pregio dell’ironia e soprattutto dell’autoironia. Fra i vari what-if della storia controfattuale calcistica uno dei più dolorosi, per chi ama la Tartan Army, riguarda senz’altro Germania 1974, il ritorno al Mondiale dopo 16 anni. Oltretutto in una edizione senza l’Inghilterra, eliminata dalla Polonia nelle qualificazioni, particolare che aveva fatto crescere l’attesa in maniera pazzesca. Il tutto ingigantito dal sorteggio che aveva messo la squadra di Willie Ormond nel gruppo 2 (Francoforte, più Gelsenkirchen e Dortmund) insieme al Brasile campione del mondo e con Pelé al momento del sorteggio ancora indeciso sul da farsi (poi si sarebbe tirato indietro spiegando il gran rifiuto nei modi più diversi), alla Jugoslavia dei cavalli pazzi e ad uno Zaire, l’attuale Repubblica Democratica del Congo, di cui nessuno sapeva onestamente niente se non che tutti i giocatori militavano in club della loro terra e che si era qualificato con facilità nel girone africano finale dominando il Marocco Grazie anche alla guida sicura dello jugoslavo Blagoja Vidinic, che aveva portato a Mexico 1970 proprio il Marocco.
Il commissario tecnico scozzese, da giocatore ottima ala sinistra (uno dei Famous Five dell’Hibernian, che gli anziani di Edinburgo e dintorni mitizzano), era stato chiamato dalla federazione un anno e mezzo prima: un po’ per l’ottimo lavoro svolto al St.Johnstone e molto perché Tommy Docherty aveva salutato tutti accettando le offerte del Manchester United. Grandi qualificazioni, scherzando con la Danimarca e lottando con la Cecoslovacchia, convocazioni all’insegna del talento e senza puntare sui soliti blocchi. Anzi: nei 22 c’erano più giocatori del Leeds (e che giocatori: David Harvey in porta, più Gordon McQueen, Billy Bremner, Joe Jordan e Peter Lorimer) che del Celtic o dei Rangers…
La partita d’esordio, fra Brasile e Jugoslavia, si risolse in uno zero a zero non banale, ricco di emozioni (la più grossa un tiro ravvicinato di Acimovic con miracolo di Leao) ma povero di qualità, segnato da un’incomprensibile mossa del c.t. Zagallo: Jairzinho centrocampista centrale. In tribuna al Waldstadion, Ormond pensò che in fin dei conti la qualità di quel girone fosse inferiore al previsto. Ragionamento giusto che portò ad una conclusione sbagliata: quella di non correre rischi con lo Zaire, alla ricerca di un gol in più, perché sia con il Brasile che con la Jugoslavia una squadra piena di classe come quella Scozia avrebbe potuto vincere. Senza contare che lo Zaire avrebbe magari messo in difficoltà anche gli altri.
L’offensivista Ormond preparò quindi la prima partita del girone, con gli africani, in una maniera con il senno di poi rivelatasi suicida, riempiendo la testa dei suoi giocatori di timori. Qualcosa tipo il Cesare Maldini di Francia 1998, con Tore Andre Flo, o il Trapattoni 2002 con De La Cruz. In un mondo non ancora a portata di telecomando il c.t. dovette affidarsi alle relazioni di spettatori improvvisati e solo quando lo Zaire arrivò in Germania riuscì a farsi preparare relazioni tecniche decenti dai collaboratori. La lontananza crea il mito, quasi al pari dell’ignoranza, così sulla base di semplici allenamenti Ormond si sentì riferire di una squadra di straordinario talento, una specie di Brasile africano che si basava su due blocchi: quello del Mazembe (di Lubumbashi, nel Katanga) e quello del Vita (Kinshasa) che nel 1973 aveva vinto la Coppa Campioni africana. E quindi cercò di terrorizzare i suoi spiegando che una vittoria a Dortmund, con qualsiasi punteggio, sarebbe stata da considerarsi un traguardo straordinario.
All’inizio lo Zaire sembrò confermare le previsioni di Ormond, con una serie di passaggi-melina che finì solo al 26’, quando Jordan fece da torre per Lorimer, che con un destro al volo non lasciò scampo a Kazadi Mwamba. Nemmeno dieci minuti e raddoppio proprio di quello che sarebbe diventato lo Squalo (non è traduzione dall’inglese, visto che il soprannome gli fu affibbiato al Milan: lo spiega lui stesso nell’autobiografia), che ovviamente di testa spedì alle spalle di Kazadi un pallone servitogli da una punizione di Bremner. A questo punto tutti i 26mila presenti del Westfalen Stadion quel 14 giugno si aspettavano una goleada. Che non ci fu, prima di tutto perché Ormond urlò ai suoi di amministrare il gioco senza scoprirsi e poi perché Vidinic aveva organizzato bene la sua squadra, con gli attaccanti che di fatto giocavano da incontristi e con una circolazione di palla per quei tempi sorprendente, sia pure senza mezza idea offensiva. La Scozia creò pochissimo se non buone trame a centrocampo, e con tutto il rispetto per lo Zaire sembrò che Dalglish, Bremner, Jordan, Law e Lorimer avversari come quelli avrebbero potuto sotterrarli. Ormond forse si pentì di avere schierato il trentaquattrenne Denis Law, che letteralmente si trascinava per il campo, ma non ebbe il fegato di toglierlo. Così ad un quarto d’ora dalla fine chiamò fuori Dalglish, all’epoca stella del Celtic, inserendo Tommy Hutchinson. Per Law fu l’ultima partita in nazionale, per Dalglish una botta da cui non si riprese fino al termine del Mondiale. Alla stampa c.t. e giocatori parlarono in calcese raccontando di avere ottenuto un buon risultato e che il calcio africano sarebbe stato il calcio del futuro (questa l’avremmo sentita altre volte…). Stando alle occasioni da gol il due a zero fu in effetti un punteggio giusto.
C’era da concentrarsi sul partitone con il Brasile di quattro giorni dopo al Waldstadion di Francoforte e soprattutto si dovevano fare scelte pesanti. In difesa fuori John Blackley, e dentro il capitano del Manchester United Martin Buchan, davanti fuori Denis Law e dentro un altro dello United, Willie Morgan. Zagallo rispose riportando Jairzinho sulla destra, ma la qualità della Selecao a centrocampo e davanti era inferiore a quella di quattro anni prima. Purtroppo per Dalglish, Jordan e Lorimer era invece migliorata in difesa: rimpianti solo per un’occasione enorme capitata a Bremner, che dopo avere annullato Rivelino aveva fiato e tempismo per inserirsi. Per il Brasile una traversa di Leivinha (zio di Lucas, ora al Liverpool), su corner di Nelinho, tanto affanno e poco altro: la Scozia vinse ai punti, ma la soddisfazione fu magra perché lo stesso giorno, a Gelsenkirchen, Kazadi in 18 minuti concesse tre gol alla Jugoslavia (Bajevic, Dzajic e Surjak), tanto che Vidinic infuriato lo sostituì al 21’ con Tubilandu Dimbi. Una scelta tecnica in senso stretto: ai suoi tempi Vidinic era stato uno dei migliori portieri del mondo, oro olimpico a Roma ed argento agli Europei. Che riuscì nell’impresa di farlo rimpiangere, perché ne prese altri sei nei modi più strani, diventando il portiere più battuto della storia del Mondiale in rapporto ai minuti giocati. Insomma, si stava mettendo male e sarebbero state quindi decisive le partite del 22 giugno. Sembrava scontato che il Brasile avrebbe battuto con almeno 3 gol di scarto uno Zaire in disarmo, quindi a disposizione della Scozia c’era di fatto un solo risultato: vincere.
Partita nervosissima, sbloccata a dieci minuti dalla fine da Karasi su cross del capitano Dzajic, con pareggio di Jordan all’88’ sfruttando di testa un bel cross dalla sinistra di Hutchinson, entrato come nella prima partita al posto di un indisponente Dalglish. L’assalto finale, fra spallate e calcioni, fu inutile, ma la beffa vera arrivò da Gelsenkirchen, dove fra drammi sportivi e momenti di culto assoluto (su tutti l’uscita dalla barriera di Mwepu, con calcio al pallone prima che lo toccasse Rivelino) il Brasile segnò il decisivo tre a zero solo a dieci minuti dalla fine, con Valdomiro e la decisiva complicità di Kazadi (che per il resto disputò un’ottima partita). Lo Zaire, minacciato di ritorsioni dal suo dittatore Mobutu (che qualche mese dopo avrebbe provato a ripulire la sua immagine organizzando la famosa 'Rumble in the jungle', il leggendario match fra Muhammad Alì e George Foreman), diede veramente l’anima ma non fu sufficiente. La Scozia diventò la prima squadra del Mondiale ad essere eliminata senza avere subito sconfitte, e fu anche l’unica squadra imbattuta di quell’edizione, visto che la Germania Ovest campione perse nel girone con i ‘democratici’ dell’Est. La Tartan Army tornò mestamente a casa: la più bruciante delle sue belle sconfitte arrivò senza nemmeno la fatica di perdere.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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