La Gazzetta ogni mattina

Questa nostra intervista a Candido Cannavò risale al marzo del 2007, avrebbe dovuto essere il primo punto di un libro storico e lineare sul giornalismo e suoi direttori. E’, adesso, soltanto un’interessante (si spera) chiacchierata.
Quasi 53 anni dal suo primo articolo sulla Gazzetta dello Sport, 19 anni di direzione. Cannavò, il rosa non stanca? «Potevo andare in giro per il mondo, fare conferenze, frequentare i salotti. Invece, dopo la direzione, non solo ho continuato il filone perché me lo chiedevano, non solo perché è il mio lavoro e mi permette di guadagnare oltre quello che mi spetta, ma ho continuato a fare questo lavoro perché mi piace. Ho le mie passioni e le ho ritrovate anche altrove, non solo nello sport. Amo vivere, ho curiosità della vita. La rubrica quotidiana è un atto di fedeltà al giornale, su queste pagine ci scrivo da più di mezzo secolo. Vorrà dire qualcosa?»
Torniamo indietro di 53 anni. «Ho sempre avuto la passione sportiva. Era scoprire un mondo nuovo per noi che non avevamo niente, poveri e senza prospettive, avevamo solo i dolori e gli spaventi della guerra. Ero senza padre. Ci attaccavamo alle cose che ci facevano sognare: non solo il calcio, ma anche l’atletica. Non so perché amassi tanto l’atletica e ne avessi piena conoscenza, c’era un qualcosa di fiabesco. Nei temi prendevo 7, ero bravino, però questo piacere per la scrittura, che mi ritrovo addosso, è un piacere fisico. Se non scrivo una cosa ogni giorno, anche adesso, mi sento vuoto».
Cosa significa raccontare lo sport? «Sorrido quando mi chiedono che nesso c’è tra un campione sportivo, un detenuto e un disabile? C’è l’uomo. Ho sempre cercato l’uomo, dietro Ferrari, Chechi, dietro la Simeoni, una splendida donna, dietro l’ergastolano, come Melodia del carcere di San Vittore, dietro la ballerina Simona Atzori. C’è sempre la persona al centro della scena, che domina la mia vita e la mia attività professionale».
E il Cannavò privato, fuori dal lavoro? «Quando torno a casa, a Catania, stacco la spina. Cerco di stare con mia moglie che, in questa nostra vita, ha avuto modo di incrociare i miei interessi, però è sempre stata distaccata, ha rispettato le mie scelte e – per fortuna – non è stata il tipo di compagna che ti tempesta di domande sul calcio e sullo sport. Poi ho vissuto il filone artistico di mia moglie, che ha la febbre della danza, un arricchimento anche per il mio lavoro. La foto di Simoma Atzori sulla copertina del mio libro, difatti, è stata scelta da lei. E’ importante essere in pace con la famiglia. Bisogna saper fare delle rinunce. Nel ’63 non sono venuto al Corriere della Sera perché avevamo due bambini piccoli».
Quanto è lontana Catania da Milano? «Non ho vissuto una vita facile. A volte, al contrario, avverto il senso della provvidenza, qualcosa che mi ha aiutato. Io nel 63 sarei corso a Milano, sarei salito anche con la vespa. A Catania, alla Sicilia, ero in una posizione di privilegio. Ero un numero uno, sfidavo l’editore, l’ho portato a fare cose che non avrebbe mai fatto: mi ha inviato in Giappone! C’era soltanto un po’ di invidia, che considero un pregio, perché se ti invidiano c’è qualcosa per cui farlo, ma non ne risento. A Milano non sono arrivato sconosciuto, altrimenti non mi avrebbero chiamato. Ho girato il mondo con Palumbo, Zanetti e Brera. Diverso è stato arrivare a Milano e “affrontarli” in casa loro. Ricordo i confronti con Gianni Brera, un prototipo unico del linguaggio giornalistico, non un direttore, un egocentrico come lui non poteva. Un pochino razzista lo è sempre stato. Non mi sono portato dietro queste piccole cattiverie, tant’è vero che oggi c’è il premio Brera perché mi impegno in prima persona, perché lui se lo merita, perché è un monumento del giornalismo. Ho avuto sempre un buon rapporto con i colleghi perché do sempre fiducia massima, ma se un giorno ti comporti male, dico: poverino, guarda, perché l’ha fatto. Ma non cambio il mio carattere se qualcuno mi ha tradito, non perdo un valore perché uno si è comportato male. Non è una strategia, bensì un istinto».
Come si passa alla direzione della Gazzetta dello Sport? «Con la curiosità si può fare tutto. Ho fatto un’inchiesta sugli ospedali della Sicilia, un’opera biblica durata tre mesi: è stata una palestra. Mi sono interessato allo sport, alle grandi manifestazioni. Un vero giornalista ha due requisiti: la chiarezza e il lettore. Quando si scrive bisogna pensare al lettore, l’unico interlocutore, non se Galliani si offende o come reagirà Agnelli. Se tu vendi un prodotto popolare ad un euro, salvo alcuni argomenti, le cose si devono dire chiaramente. Lo scrivere complicato è un limite, oltre che un sopruso. Nelle riviste letterarie si può scrivere difficile, nei giornali si deve scrivere semplice, comprensibile soprattutto. Indro Montanelli, sia benedetto per sempre, ha fatto di questi principi un testamento per le generazioni future».
Un fermo immagine dei suoi 19 anni alla direzione. «Un grandissimo orgoglio, per quello che è stato e per quello che è rimasto. In Gazzetta sono a casa mia, metà redazione l’ho cresciuta io. Il cruccio sono i dolori che ci sono stati, come la perdita di Giavazzi. I crucci sono stati i momenti negativi dello sport, quando ti accorgi di aver fatto male a qualcuno, sempre in maniera involontaria».
Quante pressioni esterne riceve un direttore? «Cito l’esempio di Galliani. Nei primi tempi alla presidenza, Berlusconi, carico d’entusiasmo, vedeva il Milan come il filone per il suo decollo mondiale. I tempi per le procedure dell’arrivo di Berlusconi furono per noi una coppa dei campioni al giorno: si vendeva il giornale a meraviglia, la gente era impazzata. E figurarsi che mi mandò un signore per chiedere cosa ne pensassi. Lui è un istintivo, come dice cazzate oggi, le diceva anche allora. Si lamentava, insomma. Persero male a Barcellona, Cerruti riportò lo sfogo di Berlusconi e lui mandò Galliani. Volevano che cambiassi Cerruti, io risposi: sto pensando che le posso fare un favore, scordarmi di questa telefonata. Da quel giorno non è successo più niente. Se avessi ceduto, mi avrebbero perseguitato tutta la vita. Prima di un’elezione, mi chiamò un personaggio politico per un’intervista. Dissi: va bene, però dopo le elezioni. Basta essere decisi una volta. Nemmeno l’editore mi ha messo i bastioni tra le ruota. E c’era la Juve direttamente interessata. Ma con Agnelli non ho mai avuto questioni, con Boniperti, invece, ci siamo mandati a quel paese per secoli. Ora ci amiamo. Andare dritti non è una questione morale: è una furbizia. Se a Moggi, che io detesto, c’è da dirgli bravo per Ibrahimovic: glielo dico, senza problemi».
Come si entra in Gazzetta? «Non ho mai avuto segnalazioni, curriculum tantissimi. Le mie assunzioni sono state sempre corali, non ho mai detto: garantisco su questo o sull’altro, in genere si prova. Arrivano tanti ragazzi, stanno mesi, vengono stritolati nella redazione, in estate soprattutto, e dopo un certo periodo sai tutto di loro. Come fatto personale, conoscendolo dai tempi di Catania, ho consigliato agli altri di provare Fausto Narducci e, come si vede, è diventato un grande».
Da direttore a editorialista. Sensazioni? «Ho smesso con serenità, mi sono concentrato sui libri e, nel contempo, non ho smesso di frequentare la Gazzetta: ho un ufficio, ci lavoro, mi mantengono nel cuore di queste sacre mura. Ho sofferto certe scelte dei direttori. Calabrese è un giornalista serio e di valore, solo che ha vissuto la Gazzetta come un piccolo svago, un qualcosa di temporaneo. Ho persino aiutato Di Rosa quando ho saputo delle sue ambizioni, ma per lui gli bastava un mio pezzo a settimana».
Il rapporto con Carlo Verdelli? «Divino. Dal primo momento ha avuto un atteggiamento positivo, non c’è mattina che non ci sentiamo, ci parliamo, ci ascoltiamo. Verdelli ha dato prova di un rinnovamento efficace, che a volte ha avuto punte eccessive, ma adesso marcia sul filo di una modernità equilibrata. Non è facile cambiare. Lui sta dando linguaggi, un modo, degli argomenti per le nuove generazioni. Anche “Altri Mondi” è un’esperienza positiva. Poi si impegna dalla mattina alla sera. Verdelli ha talento, fantasia e il senso adatto per valorizzare gli altri. Riesce a godere del suo lavoro attraverso i pezzi scritti dagli altri».
Calcio e stampa, che futuro? «Il nostro pallone è messo male, molto male. Ci sono crisi ovunque. Creare uno spettacolo è sempre più difficile. C’è una disfunzione culturale di base, come si fa se i bambini crescono con una mentalità sbagliata? L’unico sollievo è che, forse, peggio di così non si può scendere. Ci vorrebbero un po’ di anni sereni. Con l’arrivo della televisione, negli anni ’50, i miei colleghi mi consigliarono di lasciar perdere i giornali. La carta stampata può essere la salvezza di un certo giornalismo, ottima per l’approfondimento. La tecnologia, purtroppo, ha portato a forme di superficialità. L’errore più grave sarebbe quello di inseguire la televisione e i media più sofisticati. Si può perdere in quantità, ma si deve guadagnare in qualità».

Carlo Tecce
carlotecce@gmail.com

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