Il muro di Liedholm


Il Nils Liedholm dei media è sempre stato molto diverso da quello vero, ricordato da molti suoi giocatori come uomo di grande intelligenza e grandissima durezza. Forse perché la sua classe di calciatore nasceva dal cervello prima che dall'istinto, da chi aveva la fortuna di giocare per professione pretendeva un'applicazione maniacale che esaltava i più intelligenti e deprimeva gli stupidi. Poi sui giornali filtravano solo le battute e le storielle scaramantiche (dai maghi al sale, al confine con Oronzo Canà), ma Liedholm aveva ben altro spessore. Chissà che Barone avrà consegnato ai posteri Sebastiano Catte, che ha presentato a Roma il suo 'Nils Liedholm e la lieve memoria del calcio' (Ethos edizioni), frutto di conversazioni fra l'autore ed il fuoriclasse svedese scomparso di recente. Dall'oro olimpico di Londra 1948 al quasi ultimo urrah nel Mondiale casalingo di dieci anni dopo, piegato solo dal Brasile di Garrincha e Pelé, passando per un Milan fortissimo a cui mancò la consacrazione europea per cause di forza maggiore (la Coppa Campioni nacque nel 1955-56, a ciclo quasi finito, comunque una finale fu persa con il Real di Di Stefano) e proseguendo con una carriera in panchina più da costruttore che da gestore. Ecco, per motivi che ci sono sempre sfuggiti Liedholm non ha mai avuto una squadra di campioni già fatti, eppure per carattere e formazione l'avrebbe fatta funzionare meglio di tanti 'vincenti' della sua e della nostra epoca. Ingiustamente considerato inventore del gioco a zona, in un'Italia in cui si giocava a uomo ma dove fino agli anni Cinquanta la zona nelle sue varie declinazioni era l'unica filosofia calcistica conosciuta (c'è stata quindi un'epoca in cui il gioco a uomo rappresentava il 'nuovo'), la forza di Liedholm era quella di lavorare sul miglioramento individuale anche dei campioni, come pochi allenatori di alto livello hanno l'umiltà di fare: gli aneddoti sui palleggi contro il muro di Pruzzo sono tutt'altro che invenzioni, a detta dello stesso Pruzzo. In termini di marketing, per quello che si è capito, ci si rivolge più al mercato romanista (solo così si spiega il capitolo su Totti) che a quello milanista o degli appassionati di storia: peccato, perché Liedholm è uno di quei pochi personaggi calcistici il cui valore prescinde dal tifo.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

4 commenti:

Dane ha detto...

Direttore, chapeau ancora una volta. Sorvoliamo sul marketing all'amatriciana per non fare la figura dei Calderoli della situazione, la precisazione sugli allenatori "vincenti" è perfetta (quanti Sacchi, Capello, Lippi, Trapattoni, Mourinho ci vogliono per fare mezzo Liedholm?!...e il discorso potrebbe adattarsi anche a gente come Bernardini), così come il ricordo del "laboratorio Liedholm" al quale i professionisti venivano piegati: è grazie all'alambicco dello svedese che uno come Tassotti passò dall'essere il più ruvido terzino del campionato ad essere il terzino destro più forte della storia calcio italiano (è una provocazione liedholmiana, tipo "Avellino squadra più pericolosa del campionato", ma fino ad un certo punto...).
Ma soprattutto, come ha detto lei era un personaggio che andava al di là del tifo e di fronte al quale dovrebbero inchinarsi tutti i tifosi di tutte le squadre (anche e soprattutto perchè di scheletri nell'armadio ne aveva pochi, a differenza di altri monumenti come Boniperti...).
Personalmente le sensazioni che mi risveglia Liedholm sono quelle riferite ai giocatori più liedholmiani, come filosofia e carattere: Di Bartolomei nella Roma, Donadoni nel Milan, oggi forse solo Pirlo...
Ma soprattutto un aneddoto in particolare, di quando da bambino (anni 80...) l'allenatore ci portò a visitare gli allenamenti delle big del nord Italia e a Milanello vidi lo svedese allenare i portieri sulle punizioni. Vedere Piotti e Nuciari faticare a prendere i tiri di quel vecchietto mi ha impressionato come poche cose, tanto da convincermi che lo svedese sia stato uno dei primi 5 allenatori di sempre (e mi sa che gli altri 4 non hanno mai allenato in Italia...) proprio perchè il suo valore va al di là dei valori separati come calciatore, allenatore o generico "uomo di calcio".
Lo capissero i talebani del "taci tu che non hai vinto niente", l'Italia sarebbe un paese migliore...

Ale ha detto...

Chapeau al direttore e chapeau a Dane. Liedholm era prima di tutto un uomo vero, in cui l'etica sportiva (concetto sconosciuto o meglio ormai disusato) in senso lato era un punto di riferimento. A proposito di quanto detto da Stefano sul fatto che il barone non abbia mai allenato squadre di primissimo piano ricordo un'intervista in cui Liedholm disse che per lui allenare la Juve sarebbe stato troppo facile. Lui preferiva vincere uno scudetto ogni tanto con un'altra squadra perchè gli dava più gusto (le parole magari non erano queste ma il concetto sì).

jeffbuckley ha detto...

Liedholm mi faceva impazzire nelle interviste dopopartita. Se aveva vinto elogiava la squadra avversaria dicendo che era fortissima, che aveva giocato bene etc.. se aveva perso elogiava la sua squadra. In entrambi i casi ingigantiva la prestazione dei suoi anche se magari negli spogliatoi li aveva attaccati al muro....

Dane ha detto...

E non l'ho mai sentito dare la colpa all'arbitro per una sconfitta...