Il miliardo di Prokhorov

Facile sfruttare il potenziale di marketing degli 'international players', molti dei quali hanno il plus commerciale di essere bianchi (per chiamare le cose con il loro nome) e di sfruttare anche il meccanismo di identificazione del tifoso medio. Meno facile accettare eventuali 'international owners' in una lega per definizione chiusa. Per questo sarà interessante seguire la vicenda di Mikhail Prokhorov, intevitabilmente definito 'russian tycoon, che sul suo blog ha annunciato di avere nello scorso weekend fatto un'offerta per l'acquisto dei New Jersey Nets. Il re del nickel, fra l'altro uno dei tanti protagonisti del recente festival dell'insider trading avvenuto intorno alla Roma, non ha fatto cifre ma conta sul fatto che l'attuale proprietario, Bruce Ratner, sia in mezzo al guado per la situazione Brooklyn-nuova arena. Prokhorov con il suo Onexym Group (investimenti in settori ad alta tecnologia) è l'uomo più ricco di Russia, in minima parte finanziatore del CSKA Mosca e fedelissimo di Putin. Al di là della valutazione finanziaria dei Nets, sarà interessante la reazione del resto della NBA. Perché Prokhorov non sarebbe solo un esterno al sistema economico americano, già di per sè motivo (non dichiarato) di esclusione, ma anche simbolo politico di uno stato potenzialmente nemico. Non in tutto il mondo, per fortuna, i tifosi si fanno comprare con Adebayor. Previsione: gli altri proprietari lo inviteranno a tenersi il miliardo.

11 commenti:

Roberto Gotta ha detto...

C'è in effetti il discorso dei criteri di ammissione: nel calcio inglese c'è la barzelletta del test di verifica che chi acquista sia una "fit and proper person", insomma uno a modo, nella NBA e altre leghe USA si va a indagare sull'effettiva consistenza del patrimonio e della sostenibilità, perché mai al mondo si vorrebbe, al di là di comprensibili diffidenze verso un certo tipo di stranieri, una situazione di proprietario a corto di denaro, per qualsiasi motivo. Anni e anni fa la NBA impedì la cessione dei Timberwolves ad un gruppo intenzionato a portarli a New Orleans perché quelli della cordata (...) non davano garanzie certe, in più se non sbaglio uno di loro era nel giro dei casinò. Comunque a Coney Island, non dall'altro capo del mondo rispetto alla zona di Brooklyn dove andrebbero i Nets, abitano molti russi...

zoleddu ha detto...

infatti mi sa che Briatore dovrà mollare la co-presidenza del QPR...ah se la barzelletta della fit and proper person fosse in Italia...

Roberto Gotta ha detto...

Vero, ma diventerebbe una barzelletta ancora più patetica, da noi, come tutto il resto. Figurati quanti sotterfugi, intrighi, pastette, prestanomi... (ora scappo davvero)

KBLondon ha detto...

Sarebbe piu' una barzelletta "fit and proper person" test in politica e nell'imprenditoria prima che nello sport.

Tani ha detto...

A giudicare dai criteri USA, non si direbbe che Jim Balsillie (RIM-BlackBerry) non è uno "fit and proper" per aggiudicarsi i Phoenix Coyotes. Solo che Gary Bettman e i suoi "soci" la pensano diversamente.

Anche nel sistema migliore al mondo per quanto riguarda lo sport, le regole non scritte valgono più di quelle scritte...

spike ha detto...

"fit and proper person" un tycoon?
ancora rido...

Dane ha detto...

L'importante è che sia "affluente".....

paperogha ha detto...

Mi sembra un po' un paradosso questa questione.
Il senso di appartenenza non è certo più radicato che in Europa, dato che le franchigie si possono spostare di città per meri motivi economici e quindi per il tifoso chi sia il proprietario della sua squadra credo conti poco o nulla.
Poi gli Usa sono la patria della globalizzazione, permettono ai capitali stranieri di comprare pezzi importanti del loro sistema economico (penso a FIAT-Chrysler, ma anche agli interventi dei fondi sovrani sulle banche, se non ricordo male) e quindi trovo contraddittorio che sia più "sacro" l'assetto proprietario di una franchigia sportiva che quello di un'azienda importante.
Forse lo sport rimane negli USA uno degli ultimi baluardi del patriottismo che resiste alla globalizzazione?

Nonno ha detto...

credo che la questione dipenda più che altro dal fatto che lo sport USA non dipende da alcuna federazione, ma da un gruppo di persone che si associano per fare un campionato. se ad un po' dei soci anziani non piaci, non entri punto e basta

Roberto Gotta ha detto...

@DrSpot: esatto. E non solo: le nuove squadre (non i nuovi proprietari) devono pagare un prezzo altissimo che comprende una sorta di tassa di "riconoscimento" a chi prima di loro ha contribuito a rendere prospera ("affluente"...) la lega. Ricordiamo poi che il senso di appartenenza in USA vale per i college e molto meno per le squadre pro: ovvio che se le vogliano tenere, e ricorderete la fuga notturna dei Colts da Baltimore a Indianapolis, ma il paragone sul piano "sentimentale" va fatto con tra le nostre realtà e i college. Nei pro vale solo per squadre di lunghissima tradizione: i Celtics MAI potrebbero spostarsi, probabilmente, mentre gli stessi Lakers come sapete vengono da Minneapolis dove avevano vinto titoli su titoli. A Los Angeles, i Dodgers nei loro negozi vendono cappellini con la iniziale "B": è un ricordo di quando erano i Brooklyn Dodgers, squadra storica che però lasciò Brooklyn. Se lo ricordano ancora, mentre non si ricordano di altre di minor pregio, trasferitesi.

Jakala ha detto...

Poi gli Usa sono la patria della globalizzazione, permettono ai capitali stranieri di comprare pezzi importanti del loro sistema economico

In realtà anche li c'è una selezione dei capitali, meno evidente ma c'è.
Basta pensare al tentativo di acquisto di Unocal da parte di Petrocina o del mancato acquisto dei porti americani a degli investitori di Dubai, quando i venditori erano in realtà un gruppo inglese.