di Oscar Eleni
1. Oscar Eleni dalla via bolognese dedicata all’Indipendenza, davanti alla chiesa dove il basket ha ricordato Gianluigi Porelli, due colonne oltre il grande Civolani che nei suoi ricordi del “ duce truce”, come lo chiamava lui, ci batte tutti, perché era vicino a lui per partite di calcio storico e addio alle case chiuse, non abbastanza distante dalle macchine blu che aspettavano i parenti stretti per l’ultimo viaggio verso il cimitero, da quella con autista bellissimo di Sacrati, dal gruppo che aveva fra le mani il ricordo scritto per la Lega, gente che ti veniva incontro e che pensavi di poter abbracciare, ma che guardandoti sopra la giacca chiedeva se le auto erano pronte. Autista. Ecco quello che dovevo fare, ma non mi piace guidare. Meglio così perché in un lunedì solare, nella strada dove l’avvocatone finiva quasi sempre le sue passeggiate storiche puntando sul Diana di Eros a cui chiedeva la vendita del locale perché non ne poteva più di vedere trascurato il tavolone dei viaggiatori, quello che, storicamente, all’entrata, accoglieva i passanti senza famiglia che avevano fretta e voglia di stare insieme agli altri.
2. Meglio così, dicevamo, perchè avremmo tirato sotto parecchia gente, partendo dall’hotel Carlton dove si radunavano i dirigenti per una delle solite riunioni di Lega con il veleno nella coda e i grilli nella testa, dove c’erano tipini alla moda, quelli che rifondano dove ci sono cattedrali, monumenti, trofei in quantità andando a chiamare addormentatori professionisti e smemorati persino da qualche università, che neppure hanno sentito il dovere di andare a piedi fino a quella chiesa. Gente del basket di oggi e si vede bene come siamo finiti, gente che sbatte le porte in faccia ai bambini del minibasket che vogliono soltanto vedere in azione i campioni più grandi di loro, non quelli veri che si scoprono quando la palla pesa sul serio come direbbero i disperati di Sandor Sky dopo aver visto, incatenati alle solite sedie, i fratelli in nero della NBA nostrana, dopo aver schivato il vuoto se Sabatini e Lefebre avessero vinto la battaglia per fare anche del campionato di basket uno spettacolo televisivamente invisibile come potrebbe essere l’Eurolega. Una condanna per chi sosteneva ancora il basket come sport per giovani che andava bene pure per i vecchi come salmodiava Gianni Corsolini nella grande chiesa.
3. Orgoglio ferito, vanità maciullata e bisogna dire che ce lo meritavamo per aver volato un po’ troppo in alto, per esserci illusi che il Dario Colombo offeso (lui ?, ma roba da matti) non sarebbe scivolato via quasi senza salutare, per non prendere in considerazione la faccia truce di Buzzavo che spesso finge di non vedere, ma anche noi fingiamo di comprenderne il dolore accecante, felici di aver rivisto Angelo Rovati, stupiti di ascoltare certe cose, di pregare con mondi diversi.
4. Giorno di meditazione per un gigante. Per uno che avrà ruggito quando i ragazzi delle giovanili Virtus, dalle braccia esili, non sono riusciti a fargli vedere San Luca oltre i portici dove, diceva lui, Bologna vive, protegge, non permette ai bambini di perdersi e agli adulti di sopportare il sole e la pioggia, il freddo e l’afa. Dovevano portarlo lassù perché ci saremmo sentiti protetti, felici di sapere che c’era ancora un motivo per tornare nella sua città, sì, è vero, lui era virgiliano, uno da Mantua me genuit, ma poi l’eterno duro era stato costruito nell’Alma mater, per fermarsi a Bologna e rivedere amici veri che ora temiamo di non poter più incontrare per colpa di quelle date di scadenza che spesso allontanano per sempre come è capitato con Gigi, così lo ha sempre chiamata Paola che, per l’avvocato, era poi Nando, un gioco strano della fantasia in un coppia straordinaria.
5. Con la macchina blu avremmo fatto una mezza strage, ma per fortuna non siamo autisti e pazienza per la povera signora bionda vestita di bianco che ci voleva come guida verso il cimitero. Eravamo fuori dalla chiesa perché si fa fatica a sopportare i funerali quando diventano troppo lunghi e allora ci siamo messi in un cantone, spiando Lucio Dalla e Tobia, canticchiando a mezza voce My Way. Ecco, avremmo voluto urlare, l’avvocato voleva essere accompagnato nel viaggio finale dalla sua canzone preferita, dalla voce di Frank Sinatra il regista di tutte le sue vere emozioni. Una mezz’ora per ascoltare la bella omelia di padre Sandri, per capire se il ragazzo Moraschini credeva davvero in quello che stava leggendo, pronto a diventare un giocatore Virtus dopo che qualcuno, da Consolini in su, o in giù?, gli aveva fatto sapere che il talento non basta, deve essere valorizzato nella fatica messa a disposizione degli altri, per capire come era sbocciato il fiore di cactus Messina, per comprendere dalle parole del giudice Viola cosa era la Lega che qualche ora dopo si sarebbe lacerata sulle solite piccole cose. Poi via per le strade guidati dal Civ. Ogni angolo un ricordo, passando da via Clavature, dalla ex bottega di Peppino che era il suo amico da scatenare quando in casa Allievi non si usava il metro giusto, andando per la via della gola, seguendo il profumo dalla Bologna che non riconosciamo più.
Dietro al corteo la banda e uno capace di cantare davvero My Way:
E ora la fine è vicina
E quindi affronto l’ultimo sipario
Amico mio lo dirò chiaramente
Ti dico qual e è la mia situazione, della quale sono certo
Ho vissuto una vita piena (vero, verissimo)
Ho viaggiato per tutte le strade ( era cittadino del mondo, da New York a Parigi, da Chicago a Barcellona, dall’arena di Verona a Wimbledon, dalla montagna al mare, dalla costa Azzurra alle Dolomiti)
Ma più. Più di questo
L’ho fatto a “modo mio”
Rimpianti, ne ho avuti qualcuno (maledetto De qualcosa, olandese perfido a Strasburgo)
Ma ancora troppo pochi per citarli
Ho fatto quello che dovevo fare
Ho visto tutto senza risparmiarmi nulla
Ho programmato ogni percorso
Ogni passo attento (non è proprio vero avvocatone nostro) lungo la strada
Ma più molto più di questo
L’ho fatto a modo mio (Questo sì, e le saremo grati per sempre perchè ogni tanto ci capitava di essere nella stessa strada che voleva percorrere a modo suo).
Se un uomo non ha se stesso, allora non ha niente
Bisogna dire le cose come le sentiamo e non le parole di uno che s’inginocchia.
La storia mostra che le ho prese (per la verità le ha pure date dicono gli scudetti, la stella, la sua vita vera)
E l’ho fatto a modo mio.
Ecco cosa dovevamo fare senza passare dal Carlton.
Oscar Eleni, da Bologna
3 commenti:
Pezzo magnifico.
sì. ma non si capisce perché debba sempre attaccare i colleghi.
Magari perchè li conosce bene...
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