di Daniele D'Aquila
Juan Carlos Muñoz (4 Marzo 1919 - 22 Novembre 2009). Alla fine il sipario è calato anche sull'ultima star del cast, che così lascia il palco ai figuranti di quella ormai scalcagnata compagnia teatrale. Juan Carlos Muñoz non se lo ricorda quasi nessuno, e i pochi che se lo ricordano ne snocciolano il nome solo come primo grano del rosario: Muñoz - Moreno - Pedernera - Labruna - Lousteau. Il quintetto d'attacco più forte di tutti i tempi secondo molti, la terrificante delantera che fece meritare a quel River Plate il soprannome de "La Maquina", per la sconfortante facilità di gioco con la quale regolava gli avversari.
Lousteau, l'ala di cui Di Stefano diceva "era un Gento, ma più veloce...". Labruna, i baffetti da Clark Gable che aveva saputo essere Puskas prima di Puskas. Pedernera, di cui sempre Di Stefano diceva "il più forte di tutti i tempi tra me e Pelè? Tutti e due un gradino sotto Pedernera...". "El Charro" Moreno, fulgido esempio di genio e sregolatezza che avrebbe portato alla disperazione pure Telè Santana. E poi lui: Juan Carlos Muñoz, il dribbling fatto a persona, l'eleganza fatta calciatore, la tecnica fatta atleta. Il giocatore che nemmeno i tifosi rivali del Boca Juniors riuscivano a fischiare e che odiavano proprio per quella sua inattaccabilità tecnica e umana che lo rendeva imperfetto come bersaglio per le scimmie da spalti. Fuoriclasse in campo e gentiluomo fuori, come tutti quei personaggi della Maquina la sua vita è una collezione di aneddoti, più o meno gustosi, più o meno romanzati dalla tradizione orale e raccontati dai nonni e dai padri, mentre ci si avvia verso il Monumental trangugiando frettolosamente un chivito, seguendo la scia di fumo dei quioscos de golosinas che pervade il viale e che indica ai forestieri la strada per lo stadio: segui il profumo dei chorizos e non puoi sbagliare...
Il fuoriclasse in campo è testimoniato da quella domenica in cui il River Plate giocò in trasferta, e Muñoz sbagliò un cross provocando lo "ooooohhhhhhh!!!..." inorridito del pubblico; se lo sarebbero aspettato da tutti tranne che da lui, tanto che un giornale locale il giorno dopo, per descrivere i meriti della squadra di casa che aveva fatto bella figura nonostante la sconfitta, titolò: "Abbiamo costretto Muñoz a sbagliare un cross!"...Il gentiluomo fuori dal campo è testimoniato dalle parole che ad un ricevimento gli dedicò un papavero del partito militare al governo: "Muñoz, lei è un vero signore! Perchè non lascia perdere lo sport e si dà alla politica?..." La risposta, dell'allora già ex-calciatore, fu posata quanto bruciante: "Señor General, quando poco fa mi dava del "signore", lo diceva con ammirazione o con un senso di fastidio?..."
Non che Muñoz non avesse debolezze, per carità, anzi. Sia il calciatore che l'uomo ne erano pieni. Il primo era tanto bravo quanto lezioso, e la sua flemma lo metteva in ombra quando la partita diventava una corrida (ed anche allora nel campionato argentino capitava spesso...). Al contrario infatti del suo vicino di reparto Moreno (che era disposto a finire all'ospedale ubriacando l'avversario di finte, pur di fargli guadagnare un'espulsione...), Muñoz non amava le atmosfere cariche di tensione (un po' come il Platini dei derby torinesi) e silenziosamente se ne estraniava dall'alto della sua alterigia, adagiandosi sul fatto che quella Maquina avrebbe vinto in 9 contro 11 e figuriamoci in 10.
La debolezza dell'uomo invece stava nella continua ricerca dell'eleganza, sia nel comportamento a volte fin troppo stucchevole, sia nel vestiario che spesso gli consumava l'intero stipendio o quasi. Da vero dandy curava ogni particolare del suo aspetto fisico, a partire dalla chioma sempre brillantinata (tanto da fargli guadagnare dai compagni il soprannome di "El Pomada"...) e che ad un certo punto lo porterà ad anticipare quell'acconciatura che in seguito James Dean mutuerà da Chet Baker permeando ed ispirando lo stile dei Teddy Boy. Tanto il sudamericano El Charro era da tango nelle milongas dei barrios tanto El Pomada era distinto frequentatore del Teatro Colòn, esempio eloquente di quegli argentini che si considerano europei in esilio. Fa parte del mito il suo sdegnato commento all'abbandono da parte del River delle camicie coi bottoni davanti, a favore delle odierne casacche da gioco: "Fra un po' vestiranno i calciatori con le tute da lavoro!..."
Grande tecnica e grande personalità, come gli altri componenti della Maquina, tutti attori di grandi sceneggiate e autori di grandi declamazioni rimaste nella storia. Come quando un giovanissimo Di Stefano si esibì nello spaventoso esordio in partitella nel primo allenamento con la prima squadra del River, e Muñoz avvertì i compagni col suo ghigno a metà tra l'amaro e il divertito: "Ragazzi, da domani il giornale cominciate a leggerlo dall'ultima pagina!...", tanto da spingere Pedernera alla famosa "ramanzina" nei confronti del giovane Di Stefano.
Già, la Maquina. Un soprannome che potrebbe essere equivocato come irriverente, giacchè il gioco di quella squadra era tutto fuorchè meccanico e schematico bensì affidato alla creatività ed all'intelligenza calcistica dei suoi fuoriclasse. Un gioco che portò il River a dominare in patria e nelle rare occasioni anche all'estero, dove accrebbe il suo mito. A cui mancò solo un vera consacrazione internazionale: senza le coppe e i tornei di oggi la Maquina si nutrì solo dei rari incontri amichevoli, sufficienti a creare sgomento negli osservatori stranieri più qualificati ma insufficienti a riportarne il mito fino ai giorni nostri. E come se non bastasse ci si mise pure la Seconda Guerra Mondiale a cancellare due Mondiali che con quei nomi la compagine argentina avrebbe molto probabilmente monopolizzato come l'allora Campeonato Sudaméricano de Selecciones (l'odierna Copa America che infatti, ad esempio, il Brasile riuscì a vincere dopo tanti anni nel 1949 contestualmente alla mancata partecipazione della Selección albi-celeste...), sancendo il sorpasso sulla rivale scuola uruguagia.
Il gioco del River Plate dicevamo. Un gioco tanto semplice quanto efficace, perchè all'epoca non è che ce ne fossero tanti di moduli: la differenza la faceva l'interpretazione e quella della Maquina era la migliore. Cinque uomini d'attacco in linea, con un attaccante centrale che portava il gioco (e che difatti si chiamava centrattacco e non ancora centravanti, perchè ancora non era diventato il puntero abbandonato là davanti ad aspettare l'assist) per poi servire le due mezzali ai suoi lati e lanciarle a rete (la mezzala sinistra Labruna detiene non a caso il record di gol segnati con la maglia del River) o chiudere il triangolo ed andare alla conclusione personalmente. In alternativa serviva il gioco sulle ali per andare a riceverne il cross. E qui entravano in scena il velocissimo Lousteau da una parte, che era solito sfrecciare sul fondo, e il funambolo Muñoz dall'altra, che invece aveva al suo arco più frecce. La sua fantasia unita alla sua eleganza gli permettevano infatti di deliziare il pubblico con finte, dribbling, giocate di prima ed azioni personali che scoraggiavano qualsiasi marcatore dopo pochi minuti.
Il suo marchio di fabbrica era la carezza al pallone con la suola. Sia quando stoppava la palla spalle alla porta e, fissando a terra l'ombra del marcatore alle sue spalle, aspettava la sua prima mossa per far rotolare la palla all'indietro, girarsi e fuggire sulla fascia, sia quando si esibiva in quella versione speculare dell'elastico che Rivelino si dice inventò e Ronaldinho ha reso famoso in epoca più recente. Mentre nell'elastico brasiliano il piede sposta prima il pallone con l'esterno e poi con l'interno della punta lo recupera facendogli cambiare repentinamente direzione, Muñoz operava al contrario: arrivando sul pallone abbozzava uno spostamento su un lato fintando il tocco con l'interno, ma poi accarezzando il pallone con la suola lo faceva rotolare sotto il piede verso l'esterno dello stesso, col quale poi fargli cambiare repentinamente direzione e spostarsi dalla parte opposta. Il tutto eseguito con un unico movimento così fulmineo da lasciare il difensore tanto disorientato dalla finta da non riuscire a capire cosa fosse successo o addirittura (come diceva Bernabè Ferreyra) "mandando il difensore in tribuna". Muñoz, partendo dalla destra, era solito eseguire questa giocata di sinistro per accentrarsi e andare al tiro o servire l'accorrente compagno (solitamente Moreno) che si inseriva nel corridoio, oppure la eseguiva di destro per andare sul fondo a crossare (di norma per il gol di Pedernera o Labruna). Ma, come accadrà per la famosa finta di Garrincha, anche se i difensori lo conoscevano e si aspettavano quella giocata non riuscivano mai a neutralizzarla, cascandoci sempre.
E adesso, lasciando a macerare nella nostalgia i pochi abbastanza vecchi da averlo visto giocare e a soffrir di rammarico tutti noi che non abbiamo potuto ammirarlo in diretta, se ne è andato. Alla fine anche lui, l'ultimo grande attore che lascia quel glorioso palcoscenico ad altri protagonisti (abbastanza indegni, a dire il vero: "la Maquinita", come è stata sprezzantemente chiamata sui forum dai suoi tifosi, quella cigolante carriola di oggi, non ha nemmeno pensato di giocar domenica con la fascia nera del lutto al braccio...) e noi restiamo qua, con i mediocri figuranti di oggi che dei fenomeni di quell'epoca non hanno nè la classe, nè il fascino, nè la personalità, ma solo i capelli impomatati ed un insana passione per l'alcool.
Restiamo qua, ancora un po' più soli, legati all'immagine di quel nonno che, seduto sullo sgabello del laboratorio intanto che impaglia sedie e cuce poltrone, mentre il vecchio grammofono gracchia un tango di Julio Sosa, narra al nipote le gesta della Maquina. E il bimbo ne resta ubriacato, tanto da non accorgersi che sta sgranocchiando compulsivamente il torsolo, 'ché la mela è finita da un po' senza che se ne sia accorto, rapito dai racconti che cerca di tradurre in immagini nella sua mente. Quella mente lucida quanto basta per memorizzare la filastrocca che il nonno gli ha insegnato, che il giovane criollo fischiettava all'alba mentre pedalava a consegnare i quotidiani del mattino (ah, dimenticavamo: quotidiani che, all'epoca della Maquina, presentavano nell'ultima pagina gli annunci delle offerte di lavoro...), che la vecchia mapuche canticchiava mentre cuoceva l'asado in cortile, ma soprattutto che l'hinchada a gran voce scandiva come un anatema per spaventare gli avversari: "SALE EL SOL, SALE LA LUNA. CENTRO DE MUÑOZ, GOL DE LABRUNA!...".
Daniele D'Aquila
(in esclusiva per Indiscreto)
35 commenti:
Splendido racconto: 60 lunghi anni e l'assenza di mezzi d'informazione invasivi hanno alimentato un'aneddotica straordinaria.
Ma è vero che i componenti della Màquina giocarono solo una ventina di partite tutti assieme e tuttavia questo bastò a creare il loro mito?
Valeva la pena svegliarsi stamattina per leggere questo splendido articolo.
Bellissimo articolo, commovente e struggente. Non sapevo nulla della Maquina e del suo mito, grazie all'autore per questo pezzo
grazie daniele per la bella pagina di storia del calcio.
E bravo Dane...fantastico! :)
Sono questi gli articoli che vorremmo leggere...la storia del calcio e dei suoi miti, altro che le birre scolate da Adriano.
Se poi sono scritti così tanto meglio.
(Anche sul mio blog c'era un ragazzo capace di farsi leggere qualsiasi cosa raccontasse...poi ha pensato bene di abbandonarci...:D)
questo è uno di quei pezzi (spesso commenti compresi) che fanno capire appieno la differenza fra Indiscreto e un qualunque altro sito o forum sportivo. C'è bisogno di aggiungere altro?
92 minuti di applausi!
P.S.: e quoto Pierfrancesco
Dane, grandissimo pezzo. Pelle d'oca. Ti vogliamo così...
Quoto in toto tutti i commenti.
Grandioso, per una volta ci hai meso d'accordo tutti!
Bel post Dane.Complimenti.
Complimenti Dane!
Anch'io quoto in pieno Pierfrancesco
Estoy sin palabras!
...Quanta acqua sembra passata lungo il fiume da quel River a quello di oggi...
@ Daniele: complimenti.
solo una cosa: secondo me nel pezzo potevano starci anche due citazioni: Renato Cesarini e Carlos Peucelle.
ciao!
Non solo le merende di una volta erano più buone. Le storie di una volta erano più emozionanti, i nonni di una volta avevano favole più belle da raccontare, i bambini di una volta erano più bambini.
Bellissimo pezzo, Dane!
ottimo.
ma ieri si beveva decisamente più. oggi ci i calciatori si fanno del male in altri modi (secondo me ben peggiori..)
Quoto tutti i complimenti (di cui credo l'autore debba andare orgoglioso...), anche secondo me sto pezzo di Daniele D'Aquila è fantastico...poi finalmente riesco a sentir parlar della mia squadra, ogni tanto...
Comunque, con ordine:
@michelroj: no, credo sia una delle tante leggende appartenenti al mito, un po' come quella che per dieci partite consecutive i 5 andarono tutti a segno (il che è falso, perchè anche a loro capitava di vincere "solo" per 3 o 4 a zero...).
I 5 della Maquina giocarono ininterrottamente assieme dal 1941 al 1944 (quando Moreno se ne andò, e fu il primo). In quegli anni credo abbiano giocato un po' più di 20 partite....
@DrSpot: valeva la pena scriverlo, se queste son le reazioni. In realtà ero quasi convinto passasse inosservato, pensare che l'ho buttato giù di pancia per i soliti amici e l'ho girato ad Indiscreto quasi esclusivamente per il Direttore......
@Nick: chi è quel ragazzo?! Recuperiamolo alla causa!...
p.s.: non sapevo avessi un blog, link?!...
@Paolo S: nessuno dei due apparteneva alla Maquina e devo risparmiare pallottole, visto che non ne ho molte. Già mi son limitato a citare solo di striscio la ramanzina di Pedernera a Di Stefano (devo tenermela buona per il futuro...), per non parlare di Bernabè Ferreyra (ma parlando della finta di Muñoz non potevo esimermi...).
@Tani: ma soprattutto erano più profondi i personaggi. Quando si raccontano queste storie sembra ci si abbandoni alla retorica, in realtà erano proprio i personaggi di una volta ad esser grandiosi (pensate al limone di "Veleno" Lorenzi...). Sicuramente la lontananza tende a farci mitizzare tutto, ma tu te lo vedi Massaro che infastidito rimbalza Cicchitto o Seedorf che con l'arrivo di Di Gennaro dalla Primavera invita tutti a sfogliare gli annunci di lavoro sui giornali?!.....
@Buran: in Argentina la tramandazione orale è parte integrante della storia del calcio e gode di grande autorevolezza (nonostante il pericolo di mitizzazione, ma non succede anche coi giornalisti accreditati?! Chiedete ad un vecchio brasiliano un parere su Pelè e Garrincha...). In Italia invece purtroppo chi non rientrava in una statistica di Tosatti o nelle simpatie padane di Brera ha sempre rischiato di venir dimenticato.
C'è ancora qualcuno che non si rassegna.....
grazie dane per avermi dato anche stasera una scusa per rimpiangere di non avere a disposizione una maquina del tiempo! splendido
nick, però qui collettivo non è quello che pensi tu, ma il neopapà ahahahah
@Collettivo: ahahahah...beh, comunque anche il neopapà sull'argomento del post di Dane ne avrebbe di cose da raccontare! Solo che mi dicono sia già impegnato in altri blog, e quindi...:)
@Dane, come avrai capito era una "frecciatina" rivolta a qualcuno che pensavo stesse leggendo! :D
Il "mio" blog (fra virgolette perchè non è solo mio) è Bauscia Cafè (www.bausciacafe.com)...ma non credo che al tifo "colto" di Indiscreto possa interessare più di tanto! :)
Merci Dane.
@Nick: e tu punzecchialo, così che racconti!... ;-)
p.s.: intanto un amico mi segnala questo video: http://www.youtube.com/watch?v=VBEiAURdBFw&feature=player_embedded#
dane
quando ho visto il pezzo sulla "maquina" mi sono stupito di non trovarvi tuoi commenti..
solo poi ho fatto caso al nome dell'autore.. :)
Il pezzo è davvero bello.
Gli argentini sono figli di emigranti e hanno il cuore altrove.
@Eltopo: in realtà ho commentato, facendo i complimenti all'autore!... :-D
@Kalz: non è questione di cuore ma di cultura. Non è che gli argentini si sentono italiani o spagnoli come gli emigranti di USA e Australia per motiiv di sangue dei loro nonni. Si sentono argentini, solo che sentono l'Argentina come una nazione europea...
Ah be', se è una questione di cultura. Vedo che non ci capiamo, questo mi tranquillizza.
PierKalz, non c'è biosgno di fare lo sprezzante quando non si capisce un tuo commento. Da quello che ho capito io delle due l'una: o il tuo commento sul "cuore altrove" non c'entrava un cazzo col pezzo, o si riferiva alla mia frase "quegli argentini che si considerano europei in esilio". Quindi, se si riferiva alla mia frase mi è sembrato giusto correggere quanto hai scritto perchè non corrisponde al vero. Gli argentini non sono "paisà" con la nostalgia della terra dei nonni (alcuni sì, ma non è questo il punto...), semplicemente si sentono culturalmente e socialmente più affini all'Europa che non al Sudamerica, più vicini a Francia o Spagna che non a Chile o Brasile.
Europei in esilio, per motivi contingenti, appunto. L'esempio più eloquente è quello di Parigi, a cui l'Argentina ha sempre guardato (si guardi ad esempio al rapporto di interscambio tra valzer e tango, la moda nell'abbigliamento, usi e costumi, gastronomia, etc...).
Cosa che non succede ad esempio con Uruguay o Brasile, che di certo non hanno meno figli di emigranti dell'Argentina...
Boh, volevo essere complimentoso e conciliante e invece vedo che te la prendi. Sarò io che non mi sono spiegato, però quando dico che non ci capiamo non è mica una fesseria. Pensa alla salute.
“I messicani discendono dagli atzechi, i peruviani dagli Inca, gli argentini dalle navi”
(Proverbio che sentii pronunciare per la prima volta anni fa da Julio Velasco)
Kalz, non me la sono presa, ti ho solo fatto una precisazione. Se poi mi rispondi "vedo che non ci capiamo, questo mi tranquillizza", quello astioso non sono certo io...
Ok, ritiro tutto, ma non volevo essere astioso. Cmq incidente chiuso per me.
Leggo in ritardo,
complimenti per la storia:
al protagonista che se n'è andato da poco, ai suoi compagni d'ingranaggio e a chi s'è fatto bardo di tanta memoria.
Ig.
@Kalz: meglio così, anche perchè più che a incidente io lo avevo derubricato a semplice equivoco... ;-)
Complimenti Dane. La storia è interessante e ben narrata, ed essendo stato in Argentina, ne ritrovo pari pari i modi di pensare e le atmosfere.
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