Segnalazioni, indiscrezioni, dossier segreti, dichiarazioni shock degli stessi (ex) tennisti: ogni giorno si aggiunge qualche chicco su quella che sta diventando una distesa di sale nel deserto del tennis professionistico. La diagnosi di molti: il tennis è malato, la corruzione è l’agente patogeno, la sindrome è quella del match-fixing, degli incontri “aggiustati”. Secondo quanto riportato dalla stampa francese noi italiani saremmo un popolo di scommettitori. Più precisamente: cinque tennisti italiani – i nomi li conoscete a memoria ormai – sarebbero accaniti gambler. Lo confermerebbe – non si capisce in quale veste: opinionista, teste, gola profonda, parte lesa - Julien Benneteau, tennista francese attualmente n. 62 del ranking ATP. La cosa mi sorprende non poco. Ho sempre pensato che fossimo un popolo refrattario al progresso tecnologico. Siamo uno dei paesi europei col minor numero di conti correnti bancari online, ma i nostri tennisti avrebbero tutti o quasi il vezzo delle scommesse via internet.
Il settimanale d’oltremanica “Sunday Telegraph” ha svelato l’esistenza di un dossier segreto redatto da un broker, in base al quale le partite under suspicion sarebbero 138 – di cui soltanto tre (il 2,2%) riguarderebbero match femminili. Un coro di voci autorevoli ha rumoreggiato contro la piaga del betting, considerandola un imbarazzante fattore di contaminazione del nostro sport. Con tutto il rispetto per opinionisti e anchor man, la presa di posizione denota un pruriginoso oscurantismo di ritorno. Fa pensare a Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, o al Sacro Graal dei Monty Python. Sarebbe come voler proibire l’uso di internet o chiudere le banche online per impedire le truffe sul web. Il progresso tecnologico è inarrestabile, come inarrestabile è la piaga della corruzione. Il betting è parte integrante dello sport, un fiume di denaro, a volte sospetto, che scorre vivacemente nel tessuto economico. Se la crociata oscurantista è ridicola, indignazione e fatalismo sono non meno inutili e dannosi.
Ci siamo messi nei panni dei broker e dell’ATP e abbiamo provato a escogitare qualche semplice espediente per arginare il fenomeno in questione. a) In primo luogo, ogni broker che si rispetti, per ovvie ragioni di gestione del rischio dovrebbe disporre di efficaci trigger pronti a scattare tutte le volte che i volumi delle scommesse superano una certa soglia. Ad esempio, se su un primo turno di un Challenger si scommette mediamente 10, il giorno in cui l’ammontare delle puntate dovesse superare quota 20 o 30 il broker chiuderebbe le scommesse, senza pagare le eventuali vincite sulla singola partita (vedi Betfair sul ‘pasticciaccio’ Davydenko vs Vassallo-Arguello). La cosa non estirpa la mafia (come potrebbe?) ma le complica il ‘lavoro’, poichè per ottenere profitti interessanti le partite da aggiustare diventerebbero centinaia. b) I manager dell’ATP, i quali – non dimentichiamolo – sono tecnicamente delegati dei giocatori, invece di pagare due ex detective di Scotland Yard per indagare sul caso Davydenko, potrebbero promuovere un fondo sociale a scopo mutualistico a sostegno dei tennisti di “terza e quarta fascia”, i più sensibili alle sirene della corruzione, quelli che di solito sono ignorati e mortificati dalle Federazioni.
Due semplici strumenti, uno dei quali è immediamente attuabile. Due strumenti con audience modesto, a basso contenuto di gossip mediatico. Per i nostalgici di Quarto Potere.
Paolo Pemulis
pemurama@yahoo.it
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